Artisti

Franco Fanelli

Profilo

Incisore

Nasco il 17 settembre 1959 a Rivoli (TO) da padre bibliomane, che mi racconta dell’Orlando Furioso e della Divina Commedia quando ancora non sapevo leggere: di qui il primo incontro con le incisioni, quelle, ovviamente, di Doré. Papà mi portava in giro per Italia, per musei e gallerie. Torino era la Galleria Civica con “Le Muse Inquietanti” e i “Simbolisti” delle mostre di Luigi Carluccio e con un Twombly strepitoso, che da subito mi «avvertì» su che cos’è l’arte contemporanea. Era la galleria La Bussola e sotto il suo soffitto disegnato da Mollino vedo la pittura informale. Vidi le prime mostre di Arte povera e il “quadrilatero romano” (ma dài!) quando i fighetti degli “apericena” non ci mettevano piede se non volevano provare un altro genere di movida, illuminata dalla mala indigena e da quella meridionale. Il Castello di Rivoli era una rovina abitata da bamboccianti veri (e non dipinti) sfollati nella Manica Lunga e periodicamente da noi bambini che rischiavamo la vita e le botte dei genitori penetrando nella sale pericolanti e nei sotterranei.
Trascorro il Liceo Scientifico disegnando grovigli di figure caricaturali: mescolavo Bulgakov alle passioni d’infanzia (Bosch, Bruegel, Dürer, Altdorfer). Mi dedico all’acquaforte da allora. Erano gli anni ‘70 e i professori, più che “aperti”, erano rassegnati. Quella di chimica, a fronte della mia renitenza, accetta uno studio sulle reazioni tra mordenti e metalli. Sono in terza liceo quel 2 di novembre del 1975 quando Pier Paolo Pasolini viene ucciso.
Approdo all’Accademia come studente di pittura.  Me ne vado dopo un anno e mezzo: il non aver frequentato il corso di incisione «canonico» mi ha consentito di sperimentare una più ampia gamma di tecniche di ceratura, intaglio, morsura e stampa.  Mi  trasferisco a Lettere e scopro il Manierismo, il Barocco, il Settecento. Leggo i poeti bravi e i bravi di Manzoni; e Gadda, naturalmente (con Giovanni Getto e Barberi Squarotti); prendo una cotta gigantesca e tuttora persistente per la storia del mondo tardoantico (IV e V secolo, con Lellia Cracco Ruggini). Finisco per laurearmi, dopo tentazioni epigrafiche e di storia romana, con Andreina Griseri con una tesi di storia dell’arte sulla Torino di Pistoi e Carluccio negli anni Cinquanta.
Gli studi «classici e ardenti» all’Università ispirano nuove incisioni. Quelle di quel periodo sono su lastre piccolissime, sognando le metamorfosi barocche (Seghers) e la metafisica e lo splatter dei poeti e dei drammaturghi elisabettiani (John Donne, Webster, Marlowe): paesaggi in rovina, personaggi immaginari tra i quali un Wallenstein ispirato al Macbeth del film di Orson Welles. Siccome mi sono sempre piaciuti i pasticci, ibridavo il tutto con il gotico americano (Lovecraft) e risalivo ad Hawthorne, leggevo Conrad, Melville e il Gordon Pym. Urs Graf, sanguinario lanzichenecco e fine xilografo, Pietro Testa che cerca l’ultima ispirazione nel Tevere, Ludwig von Siegen, il soldato che inventa il mezzotinto, e, ancora, il folle ubriacone Seghers e il lunatico Mellan e secondo me, sotto sotto, anche Giorgio Ghisi (se no, come avrebbe fatto a incidere quell’enigna del “Sogno di Raffaello), mi convincono che quello dell’incisione sia un mondo di saturnini che ovviamente eleggo  a numi tutelari.
Negli anni ’80 praticavo una figurazione all’epoca sdoganata dal  “ritorno alla pittura” o neoespressionismo. Le lastre erano dense di pentimenti, cancellazioni, abrasioni, susseguirsi di tecniche, a suon di martorianti prove di stato. I “freghi e freghetti” rembrandtiani mi aiutavano a rivendicare l’anima scultorea dell’incisione calcografica. Le prime mostre (1985, tra i «Giovani artisti torinesi» agli Antichi Chiostri a Torino, una collettiva al Pabellón Villanueva di Madrid e la prima personale importante, alla galleria Documenta di Torino nel 1987) propiziano, «scoperto» da Vincenzo Gatti, la chiamata per supplenza come assistente di Tecniche dell’Incisione all’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino. Nelle aule albertine aspiro al calvinismo astrattista di Francesco Franco, guardo a Guido Strazza ma mi scopro figlio indegno di Mario Calandri.
Anche la serie degli scudi-“Sibyllae” (1987-1989, su grandi lastre, stavolta) nasceva dal sogno di essere astrattista e dalla rassegnata consapevolezza di essere incatenato all’immagine: l’aniconicità cercata nell’emblema, altro paradosso. I freghi e freghetti diventavano sfregi e squarci. Anche qui, per i grandi “scudi”, la nascita è composita: mi affascina la visione di una testa di megattera, cerco di tradurla in lastra e mi ritrovo tra le mani la memoria della targa da parata attribuita erroneamente a Cellini, all’Armeria Reale di Torino. Ne faccio cinque più un frontespizio, e intitolo la serie, con la retorica dei giovani, «Sibyllae», perché mi piaceva mettere in evidenza un modus operandi teso alla ricerca di un responso finale, quasi sempre inatteso, proferito dalle matrici. Francesco Vincitorio mi dedica su «Tuttolibri» 15 righe di recensione, un regalo stupendo, come le parole di ignoto visitatore sul libro degli ospiti alla mostra (1989) da Franco Masoero a Torino: «Finalmente un messaggio». Tra il ’91 e il ’93 accade che il Museo d’arte contemporanea di Villa Croce ritenga opportuno assegnarmi un premio come giovane incisore e che la Galleria Civica d’arte moderna e contemporanea di Torino acquisisca due esemplari delle «Sibyllae». Nel ’93 partecipo al Museum of Modern Art di New York a una mostra sul libro illustrato del ‘900. Dal 1985, intanto, Umberto Allemandi e «Il Giornale dell’Arte» erano entrati nella mia vita; da allora, acqueforti e giornalismo convivono serenamente e senza conflitti, dato ciò che scrivo e ciò che incido. E poi il maneggiare mordenti, cere e inchiostri addestra alla massima pulizia e a tenere separate materie incompatibili o vicendevolmente pericolose. Anche l’attività saggistica non è necessariamente «attinente» a ciò che incido: sì, ho scritto di Calandri e Francesco Franco, ma anche di Sironi, Ruggeri, Noland, Penone e Kounellis.
Artisticamente parlando, le uniche cose positive, dalla metà degli anni ’90 al 2000, sono uno scritto di Maurizio Fagiolo dell’Arco per una mia personale (con pittura, anche, alla Galleria Davico di Torino, 1997) e la cattedra di ruolo conseguita nello stesso anno in Accademia, insieme alle lezioni che tenni al Bisonte di Firenze, dove Maria Luigia Guaita mi organizza (nel ’95) una bella personale.
Della più recente serie dedicata ai ritratti neri (apparsi per la prima volta in forma di quadri a olio nel ’97 alla Galleria Marieschi di Modena e premiati a Sulmona nel 2000 e alla Biennale di Santa Croce sull’Arno nel 2001 e nel 2003) ho scritto nel catalogo della personale tenuta nella Galleria dell’Incisione di Brescia nel 2004, quando ho esposto la serie incisoria al completo.
Da allora ho lavorato su altre cose che tengo nascoste sino a che non ne sarò sicuro. Piranesi resta l’ossessione continua, dico di quello preromantico-minimalista-enciclopedico-visionario delle “Antichità di Roma”. So che quel gigante aveva ragione quando pensava che l’oggetto inciso fosse più vero della realtà; che, anzi, l’incisione conferisca plausibilità al reale. Quanto a Seghers, aderisco volentieri al suo incidere per evocare e non per descrivere. Voglio precisare che non mi è mai riuscita un’incisione “alla prima”. Quelle che riescono subito le più brutte, perché somigliano a disegni a china e non ad acqueforti.
Vivo a Torino, anche se da un po’ scrivo anche per “Il Corriere della Sera“ e per “Style”. Abito in un quartiere anch’esso pasticciato, fatto di case operaie e di stravaganze liberty. Il rione, per una di quelle tante e assurde coincidenze che regolano la vita di questa città, è da cinquant’anni residenza dei titolari della cattedra d’incisione in Accademia. Comunque ci ha abitato anche Guido Gozzano e ogni tanto ci torna Ceronetti. Mi tengo da sempre alla larga dal «mondo dell’incisione» e dalla mistica della difficoltà tecnica, soprattutto in una città che vanta una scuola solidissima ma capace di procreare teratologici epigoni. A scuola, agli studenti, dico la verità, cioè che non ho certezze; non posso fare altro che educarli all’arte del dubbio, postulando in primis la vacuità di un mondo dominato da cattive immagini e invocandone una più responsabile procreazione. Li metto in guardia anche dalla superstizione che sottende ad ogni nozione specialistica, auspico il ritorno di un umanesimo e pratico quotidianamente, nella più serena disperazione, l’esercizio dell’utopia. In ogni caso, non ho mai sentito la narcisistica e incestuosa tentazione di tramutare i poveretti in tanti fanellucci. Al giornale cerco di fare altrettanto e il risultato è che sono radiosamente esente dall’iscrizione o dall’ascrizione a logge, consorterie, sette, cricche e caste.
La notte, in studio, sono molto meno virtuoso. Persevero infatti nel peccato, che nel cosiddetto mondo dell’arte contemporanea è l’indulgere alla fisicità tecnica e materica e nel simultaneo e incontrollato evocare spiriti (maldestro stregone, sarò apprendista a vita), demoni e presenze i più eterodossi e fra loro contrastanti e spesso assordanti. Ma, ripeto, è un vizio antico e non credo proprio che smetterò. Tanto, qui dove ho stipato carte, rami e sogni esagerati, non mi vede nessuno.

Franco Fanelli, settembre 2009

Post Scriptum.
Ho esposto “le cose nascoste” nel 2012, prima alla Galleria Colophon di Belluno e poi, in ottobre, alla Galleria Simone Aleandri di Roma. L'anno dopo l'artista ed editore Antonio Freiles ha ospitato una mia piccola antologica nella sua galleria Carte d'Arte a Catania. Ho continuato col gioco dell'ibridazione, all'insegna di una specie di “archeozoologia” nella quale scimmie cinocefale o avvoltoi interferiscono con ossessioni piranesiane, quali vasi antichi e l'arco di trionfo di Orange. Per un anno intero, il 2010, ho lavorato a “Il sogno dell'archeologo”, una specie di autoritratto in forma di cava-mausoleo. Per chi ha voglia di cercarle, le sue terrazze contengono, pietrificate e fossilizzate, presenze zoomorfe e brandelli di bassorilievi depredati qui e là. Per dodici e più mesi in quella specie di paesaggio cerebrale, a un tempo architettura e anatomia, ho inciso, raschiato via, aggiunto, brunito, cancellato, sovrapposto varie “figure”. Sta di fatto che secondo me quell'opera non è ancora finita, ma mi pare che in quella voragine Piranesi possa incredibilmente dialogare con Lovecraft. In mezzo alle ultime mostre c'è stato anche un libro, “Polvere, sassi, oli”. L'opera è scaturita da un “incontro al buio” con il poeta Alberto Toni, propiziato dall'editore e stampatore Sergio Pandolfini in Roma, secondo il quale versi e incisioni, nati separatamente, avrebbero potuto creare una buona alchimia. Anche in questo caso ho puntato, tanto per cambiare, sull'ambiguità di una natura che diventa archeologia e viceversa.  Tre protomi leonine viste in un sarcofago nella necropoli di Termessos vi si tramutano in punti di sospensione, utili, ma ragiono a cose fatte, per rimettere inseme, in quelle pagine, “antichi” paesaggi degli anni Ottanta con nuove esplorazioni tra crepacci come rughe e pareti di granito forse antropomorfe. Grazie al titolo del libro ho scoperto che Paul Celan era un appassionato di geologia (come Roger Caillois) e che in un verso scrive del “grande scudo litico”; certi incontri mi aiutano a spiegare il mio passato e a immaginare un presente per le mie opere. Non so ancora bene su che cosa vorrei lavorare ora. Di sicuro,  consciamente o meno, continuerò a bazzicare la provincia dell'impero come allegoria (ad Avila, Durham, Diarbakir ed Ippona erano intitolate quattro mie incisioni, tra le poche che salverei degli anni Novanta) e il limes come condizione esistenziale, atta a vivere quella mai completa appartenza utile, spero, all'imprendibilità.
F.F., dicembre 2012

Post Scriptum 2
E poi, dopo una catastrofe personale, è venuta la chiamata da Antonella Fusco, direttrice dell'Istituto Centrale per la Grafica-Calcografia Nazionale, perché era arrivata l'ora della mia prima retrospettiva, che ho allestito nel 2016. Si sono aggiunte, in questo periodo, nuove ossessioni, prima fra le quali quella per Faust. La natura che, nelle sue forme, prevede la sua preistoria e dunque la catastrofe, fossilizzando il futuro, è una delle mie ultime scoperte. La pratica dell'incisione ora si è fatta preghiera laica, attraverso la quale celebro quotidianamente il culto dei miei Lari, abitatori di una piccola Wunderkammer personale. Pensavo che, con il tempo, si sarebbero spenti certi ardori didattici. E invece è accaduto proprio il contrario e l'Accademia, i miei studenti, sono sempre più parte grande della mia vita. Ultimamente ho parlato loro di naufragi, relitti, reperti, rottami. E di molti poeti e scrittori, della malinconia come condizione necessaria alla meditazione e alla creazione. Li ho avvisati che non è stato del tutto chiarito l'enigma delle porte del Sonno attraversate da Enea in uscita dall'Ade, che sceglie quella d'avorio (da cui promanano sogni ingannevoli) anziché quella di corno (matrice di sogni veritieri). La menzogna è dunque contigua e complice dell'arte? Ma ho promesso loro che il mio ultimo obiettivo è di vegliare sui loro sogni, così illudendomi di proteggerli. Ho citato infine, per loro, Alexander Kluge: siamo tutti attori sotto la tenda del circo. Perplessi.
FF. dicembre 2017